Ha fatto letteralmente il giro del mondo nei giorni scorsi la notizia delle presunte intimidazioni razziste subite da Bubba Wallace, pilota di colore impegnato nella serie statunitense NASCAR. Un cappio da forca, ritrovato nel box del team Petty, aveva infatti scatenato la pronta condanna da parte dei vertici del campionato (con tanto di manifestazione organizzata al via della gara di Talladega) e l'apertura di un'indagine federale. Peccato che tutta la questione si sia rivelata un gigantesco...abbaglio.

In piena epoca di 'Black Lives Matter', il movimento globale nato in seguito al barbaro omicidio di George Floyd da parte di un poliziotto statunitense, il clima da "caccia alla streghe" venutosi a creare rischia talvolta di generare situazioni a dir poco grottesche. E' il caso di quanto avvenuto nella NASCAR, la più popolare serie statunitense, dove a finire sotto la luce dei riflettori è stato (per ragioni che nulla c'entrano con lo sport) il suo unico pilota di colore: Darrell "Bubba" Wallace.

UN CAPPIO NEI BOX

Poco prima della gara di Talladega, una volta giunti al proprio box, i meccanici del team Petty hanno trovato un'inaspettata "sorpresa": un cappio penzolante. Uno scherzo di pessimo gusto o un'intimidazione razzista nei confronti di Wallace? Nel dubbio, i vertici del campionato sono stati subito informati dell'accaduto, ed in poche ore la notizia ha fatto il giro del mondo.

Proprio la NASCAR, nelle settimane precedenti, aveva assunto una presa di posizione forte contro le discriminazioni razziali. Al punto perfino da bandire la presenza della bandiera sudista nell'ambito delle proprie manifestazioni ufficiali. Come noto, quest'ultima rappresenta un simbolo identitario sudista che richiama il periodo storico della guerra civile negli Stati Uniti, poco dopo la metà dell'Ottocento. La scelta, che aveva visto tra i principali promotori proprio lo stesso Wallace, non aveva però ricevuto il favore da parte di una buona fetta di appassionati del campionato.

LE REAZIONI

In questo clima già piuttosto "caldo", l'episodio di Talladega ha innescato una serie di reazioni dettate più dalla frenesia del momento che dalla reale volontà di fare luce su quanto accaduto. Buona parte della stampa (del settore, ma non solo) si è gettata a capofitto sulla vicenda, non potendo credere ai propri occhi nel vedersi servita su un piatto d'argento una storia "ad effetto" e pronta per essere data in pasto all'opinione pubblica.

Il tutto nel pieno delle proteste del movimento 'Black Lives Matter'. Quest'ultimo (rimanendo in ambito Motorsport) aveva infatti visto in primis Lewis Hamilton schierarsi a sostegno dei manifestanti. Il pilota anglo-caraibico, al grido Social di "Tear Them Down", aveva apertamente appoggiato l'iniziativa di abbattere i simboli e le statue di matrice razzista.

Non ultimo, la stessa NASCAR (senza nemmeno attendere l'esito delle indagini) aveva condannato apertamente l'episodio. Pubblicando un duro comunicato stampa e dando vita, subito prima della gara di Talladega, ad una manifestazione di sostegno nei confronti dello stesso Wallace, con tutto il paddock schieratosi alle spalle del pilota in segno di solidarietà. Insomma, uno spot perfetto per il "nuovo corso" della NASCAR, ad uso e consumo di sponsor e televisioni, nonché mezzo ideale per promuovere la campagna anti-Trump verso le prossime presidenziali.

LE INDAGINI: IL RAZZISMO NON C'ENTRA

Peccato che tutto ciò, una volta sottoposto alle indagini degli inquirenti, si sia rivelato soltanto un gigantesco abbaglio. Il cappio, ritrovato nel box di Bubba Wallace, era infatti lì posizionato già da circa un anno e (come confermato dalla stessa FBI) soltanto per poter tirare la porta d'accesso. Non solo: altri "esemplari" erano presenti anche in altri box del circuito. Nessuna intimidazione a sfondo razzista, dunque, ma soltanto un enorme malinteso che ha costretto la NASCAR ad un imbarazzato comunicato di...retromarcia sull'episodio.

Già, ma fino a che punto il malinteso è stato "involontario"? Come è stato possibile non notare che il cappio incriminato fosse presente in diverse aree del paddock e per una precisa destinazione d'uso? Chi ha voluto speculare sulla vicenda per ottenere dei secondi fini? Il dubbio risulta legittimo.

Il problema razzismo c'è, negli Stati Uniti e non solo. E non deve essere sottovalutato. La questione risulta estremamente delicata e sono sacrosante le battaglie volte ad eliminare qualsiasi discriminazione in base al colore della pelle. Nel mondo del motorsport e in tutti gli altri settori. Ma la sensazione è che qualcuno "giochi" a fare il furbo per motivi che poco o nulla hanno a che vedere con ideali di uguaglianza e solidarietà.

Marco Privitera