La vittoria conquistata sabato nel Gallagher GP è stata la numero 54 della lunghissima carriera di Scott Dixon. Un numero che visto così può anche dire poco, ma c’è un altro dato che mostra la grandezza del personaggio. Il kiwi, infatti, ha ottenuto almeno un successo nella massima serie americana per la 19° stagione consecutiva, impresa che ha dell’incredibile a pensarci bene. Una vera e propria striscia record iniziata nel 2005, che ha nel team Ganassi un fattore imprescindibile.

Il GP di Indy la rappresentazione perfetta di una carriera

La gara di sabato, tenutasi sul circuito interno di Indianapolis che lo ha visto trionfatore, è stata forse una delle più rocambolesche di tutte, ma ha il pregio di rappresentare al meglio la storia da corsa di Scott Dixon. Un pilota che nella sua carriera ha dimostrato in mille occasioni di essere non solo un professionista sopraffino, ma anche un combattente nato, capace di imprese per altri impossibili.

Partito nella pancia del gruppo, Scott si è trovato coinvolto nel contatto che ha messo fuori dai giochi per la vittoria Josef Newgarden e Romain Grosjean. A differenza degli altri due, però, Dixie non ha subito danni alla propria Dallara, è rientrato ai box ed ha impostato una strategia del tutto diversa da quella preventivata. Questa lo ha portato alla vittoria finale, dovendo difendersi dagli attacchi di uno scatenato Graham Rahal.

Ma attenzione a ridurre il successo di sabato a mera strategia. Nessuno, infatti, è capace di trarre il massimo da situazioni al limite come è in grado di fare Dixon. Quando gli è richiesto di perdere il meno tempo possibile risparmiando vettura, gomme e carburante, è un vero e proprio asso senza rivali, in grado di capitalizzare il risultato senza problemi. I tempi sul giro parlano chiaro: se Rahal alla fine non ha potuto attaccarlo, è stato grazie ad una maestria assoluta del kiwi.

Il legame a doppio filo con Ganassi

C’è un dato fondamentale che nella carriera di Dixon fa da vero e proprio filo rosso da cui si dipana tutta la sua storia. Il legame con Chip Ganassi e il suo team, infatti, è uno dei fattori che hanno permesso a Scott di essere quello che è ora. Un campione sulla via di diventare una vera e propria leggenda del motorsport. Nei sei titoli conquistati dal neozelandese, il ruolo di Mike Hull e di tutta la squadra hanno giocato un ruolo importantissimo, per non dire fondamentale.

Chi segue le gare a stelle e strisce conosce bene quello che rappresenta il Chip Ganassi Racing per quel mondo. Stiamo parlando del top, del massimo assoluto, insieme alla compagine di Roger Penske. Una macchina costruita per vincere, che a partire dalla seconda metà degli anni ’90 ha iniziato a mietere successi. Ecco, Scott Dixon si è inserito alla perfezione in questa realtà, andando a raccogliere il testimone lasciato negli anni passati dai vari Zanardi, Vasser e Montoya.

Da sottolineare, tra i tanti team mate incontrati in praticamente vent’anni di storia, la relazione con Dario Franchitti, insieme al quale ha scritto veramente la storia della categoria. Dieci titoli e quattro Indy 500 in due: gli anni 2000 sono stati terreno di caccia prediletto per una coppia di fenomeni assoluti del volante.

Un palmares vastissimo, con il Circus sfiorato

Ma Scott Dixon non è solo protagonista del mondo IndyCar. Il kiwi, infatti, ha avuto modo di distinguersi anche nelle categorie Sport, come IMSA e American Le Mans Series, andando anche a vincere per ben due volte la 24 Ore di Daytona, classicissima che apre tradizionalmente la stagione di gare negli States. Anche a Le Mans è stato più volte protagonista, andando a prendersi un podio di classe nel 2016. Anche qui, in entrambi i casi, con il team Ganassi, che è cresciuto di pari passo con il suo pupillo.

Viene da chiedersi come mai il suo nome risulti praticamente sconosciuto ai più in Europa, e nessun team di F1 si sia mai interessato a Scott Dixon. Beh, non è proprio così in realtà. La Williams, infatti, all’epoca forte di una partnership importante con BMW, gli fece fare un test ad inizio 2004, preferendogli però Montoya e Ralf Schumacher.

Vedendo i risultati di quella che fu la fallimentare FW26, che sarebbe stata ribattezzata “Tricheco” per la forma del suo muso, viene da dire che alla fine non sia poi stato un male per Dixon restare a correre in America, mentre Champ Car e IRL si stavano ormai per riunire sotto l’etichetta IndyCar.

Un futuro tutto da scrivere

Verrebbe da pensare che ormai, anche per un osso duro come lui che ha superato abbondantemente i 40 anni, sia arrivato il momento di pensare al ritiro. Meglio dirlo sottovoce e...non farsi sentire da Dixie, che a fermarsi non ci pensa manco per scherzo. Lo stesso team Ganassi, in questi giorni, ha postato i numeri da record del neozelandese, con la didascalia “And the legend goes on”. Un chiaro messaggio, non è vero?

Anche perché, con la vittoria di Indianapolis, Dixon ha scavalcato Newgarden portandosi al secondo posto in classifica piloti. Certo, il gap nei confronti del team mate Palou è praticamente incolmabile, ma il solo fatto di essere così competitivo è il segnale che, nel 2024, chi vorrà aspirare al titolo dovrà fare i conti ancora con lui, come ormai succede da vent’anni a questa parte.

A 43 anni, dunque, Scott Dixon continua a dare spettacolo ed essere protagonista in IndyCar. Il settimo titolo sembra irraggiungibile nel 2023 ma, viste le premesse, siamo pronti ad essere stupiti da questo giovanotto che dall’altra parte dell’Oceano Atlantico era conosciuto come Iceman ben prima che da noi questo soprannome venisse affibbiato a Raikkonen.

Nicola Saglia

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