Storie d’estate | Justin Wilson, dieci anni senza il Badass del paddock USA
Una storia dai tratti romantici quella dell'inglese, poco fortunato in F1 ma molto stimato e amato Oltreoceano

Un vecchio adagio recita che il calabrone, di per sé, non avrebbe la struttura per volare, ma lui non lo sa e vola ugualmente. Allo stesso modo, Justin Wilson aveva tutto meno che il fisico del pilota: alto, dinoccolato e sovradimensionato rispetto ai cockpit delle monoposto dei primi anni Duemila. Lui, da par suo, se ne è sempre sbattuto altamente, mostrando al mondo come talento, caparbietà e coraggio spesso possono essere più forti dei limiti che ci vengono imposti.
Il lungo viaggio da Sheffield al Circus
This is England, this knife of Sheffield steel cantava Joe Strummer, leader dei Clash, in This is England, ultimo brano degno di nota di una band leggendaria che a metà anni ’80 era già inesorabilmente sulla via del tramonto. E proprio a Sheffield, capitale inglese della lavorazione dell’acciaio, nacque nel ’78 e poi mosse i primi passi nel mondo del motorsport Justin Wilson, uno di quegli uomini la cui tempre era veramente d'acciaio, e di quello migliore. La sua carriera iniziò nei kart, con le prime gare e i primi successi che arrivarono prestissimo, a nove anni, per poi passare alle monoposto della Formula Vauxhall nel 1995. Nel ’99, poi, ecco lo sbarco in Formula 3000, che allora era la serie cadetta del Circus, vinta tre stagioni più tardi al volante della Lola del Coca-Cola Nordic Racing Team, davanti a un certo Mark Webber.
La via sembrava tracciata per lui, ma la difficoltà nel trovare gli sponsor giusti lo costrinsero a deviare sulla Formula Nissan, altro campionato di livello assoluto, per il 2002. Nonostante ciò, qualcosa per Wilson iniziò a muoversi anche in F1, con un Paul Stoddard che, esasperato dalle prestazioni scadenti di Alex Yoong, decise di mettere sulla Minardi, di cui nel frattempo era diventato azionista di maggioranza, l’inglese per le ultime gare. La PS02, però, presentò subito un problema non indifferente; l’abitacolo, infatti, era troppo piccolo per quel gigante del mondo delle corse che era Wilson. 191 cm di statura, nei primi anni 2000, costituivano un bell’ostacolo.
Non se ne fece nulla, almeno per il momento. Toccò aspettare il 2003, ma finalmente Justin ebbe il suo posto da titolare con il team di Faenza, presentandosi in pista con le punte delle scarpe tagliate per non avere problemi con la pedaliera. Purtroppo, la PS03 si dimostrò ben poca cosa, non permettendogli praticamente mai di lottare per i punti. Riuscì comunque a mettersi in mostra stando davanti al più esperto Jos Verstappen, tanto da essere notato dal team Jaguar. Proprio gli inglesi a metà stagione (precisamente dal GP di Germania) decisero di ingaggiarlo al posto di Pizzonia, e a Indianapolis, al penultimo appuntamento stagionale, Wilson portò a casa l’unico punto della sua carriera in F1. Che, purtroppo, finì un paio di settimane più tardi a Suzuka, anche a causa di una Jaguar in smobilitazione per far spazio al colosso Red Bull.

Gli States e la IndyCar nel destino, e quel Triangolo che non perdona
Sarà anche un caso, ma Wilson conquistò l’unico punto in carriera in F1 dove poi costruirà gran parte della sua carriera da top driver: gli Stati Uniti d’America. Rimasto senza contratto, infatti, si rese conto che per uno come lui il Circus era ormai diventato troppo piccolo in tutti i sensi. Trasferì dunque armi e bagagli Oltreoceano, dove trovò un contratto con Conquest Racing in ChampCar, erede della Cart e in seguito progenitrice (insieme alla IRL) della IndyCar. Dopo una prima stagione di assestamento, nel 2005 arrivò il primo successo a Toronto con la Lola B/02 del team RuSport, oltre ad un ottimo terzo posto finale in campionato.
A questo punto, per lui, la strada era segnata: non più Europa, ma America, con la ChampCar e poi la Indy a fare la parte del leone, senza disdegnare puntate in Grand-Am e Imsa, Daytona 24 compresa. Proprio la classicissima della Florida lo vide vincitore nel 2012, al volante di una Riley Mk XXVI Ford del team Michael Shank Racing. Personaggio diventato negli anni imprescindibile all’interno del paddock, seppe ritagliarsi un posto nel cuore di tutti gli appassionati a Stelle e Strisce, anche dopo quel 24 agosto di dieci anni fa.
Pocono, si sa, è una pista strana, unica nel suo genere, che negli anni ha esatto il suo tributo di sangue; Tricky Triangle lo chiamano gli americani. Tra gli alberi della Pennsylvania, negli anni in tanti hanno chiuso o quasi la propria carriera, basti pensare a Robert Wickens. Il 23 agosto di dieci anni fa, Sage Karam stava guidando la gara, quando perse il controllo della sua Dallara DW12 finendo contro il muro. Sembrava un incidente normale, senza particolari problemi, e pochi in un primo momento notarono la vettura di Wilson finita contro il muro interno pochi metri più avanti. Quando l’inglese rimase nell’abitacolo, però, in tanti iniziarono a capire: la parte anteriore della vettura di Karam era carambolata in pista, colpendo Justin sul casco senza lasciargli scampo. Wilson perse conoscenza e finì subito in coma per non risvegliarsi più; il suo cuore cedette un giorno più tardi, in una stanza della clinica Lehigh Valley Health Network Hospital di Allentown.
Badass in pista, Mr. Nice Guy nel paddock
In pista amava farsi chiamare Badass, termine poco traducibile dalle nostre parti senza ricorrere al turpiloquio, ma che sta ad indicare un duro, uno con cui non scherzare. La realtà è che fuori dall’abitacolo, nel paddock, Justin Wilson era uno dei più ben voluti e rispettati del suo ambiente. Il sorriso sempre in volto, lo humour tipicamente inglese e la voglia di non prendersi troppo sul serio: questi gli ingredienti del suo personaggio, rimasto nel cuore di tutti.
Aneddoti e racconti delle serate dei weekend di gara raccontate da colleghi e personale dei vari team si sprecano. Inoltre, riuscì ad ottenere un ruolo importante nell’associazione che rappresenta i piloti IndyCar, grazie al suo modo di essere calmo, pacato e assolutamente credibile e in grado di portare avanti le istanze di tutti. La sua morte fu un colpo pesante, esattamente come quella, avvenuta quattro anni prima, di un altro inglese che si era ritagliato un posto importante nei paddock americani, Dan Wheldon. Ti salutiamo, dunque, Badass, sapendo benissimo che sei sempre lì al muretto a fare battute sui tuoi colleghi in pista.
Nicola Saglia