Domenica 26 maggio 1996 l'automobilismo a ruote scoperte USA propone due 500 Miglia da disputare contemporaneamente, per di più con monoposto molto simili: da una parte la 500 Miglia di Indianapolis, dall'altra la più prosaica US 500. Una vera bonanza automobilistica, per dirla con un termine inglese, specie se paragonata ad un anno come il 2020, quando a maggio le monoposto IndyCar non possono girare.

The split

Nel 1996 l'IndyCar si trova alle prese con uno scisma, che passerà alla storia come The Split. Siccome la storia è piuttosto lunga e spinosa ci limiteremo a dire che il tema del contendere è di tipo filosofico ed economico.

Quando le questioni di principio incontrano i soldi ciò che ne consegue è fuori controllo ed effettivamente non si può spiegare diversamente la coesistenza, proprio nel 1996 e proprio come conseguenza dello split, del campionato CART con la nuova creatura di Tony George, il campionato IRL.

In buona sostanza le due serie sono identiche, solo che i piloti e le scuderie più blasonate sono nella prima, la 500 Miglia di Indianapolis nella seconda. Del resto Tony George è il proprietario del catino dell'Indiana.

La regola del 25/8

Diciamolo subito in maniera brutale: se l'IndyCar fosse come il calcio, la CART rappresenterebbe la Serie A, la IRL sarebbe una specie di Serie B.

Il campionato IRL, però, può vantare Indy 500, un'istituzione che costituisce un universo a parte nelle gare automobilistiche, come abbiamo ben definito con questo nostro articolo di qualche tempo fa.

Tony George non è uno sprovveduto e conosce bene l'ambiente: per il 1996 impone una regola per prevenire il cherry picking da parte delle scuderie CART, la 25/8 rule. A Indy 25 posti in griglia su 33 sono riservati agli iscritti alla IRL.

US 500

Vista l'aria che tira, le scuderie CART capiscono come non ci sia posto per loro nella Indy 500. Gli sponsor spingono per non lasciare scoperto il Memorial Day, così la CART realizza l'impensabile: organizzare una 500 Miglia alternativa a quella di Indianapolis.

La US 500 verrà corsa presso il Michigan International Speedway, impianto tra l'altro vicino al quartier generale della CART.

All'atto pratico la US 500 può vantare i nomi più intriganti del motorsport USA, ma certamente non può competere con la storia e il fascino di Indianapolis. A.J. Foyt lo sa che Indianapolis vince sempre ed è uno dei (pochi) team owner che, con uno sforzo logistico titanico, schiera vetture ad entrambi gli appuntamenti.

Fu vera gloria?

Jimmy Vaser nella Victory Lane della US 500

Fondamentalmente il nodo della questione vive in questa dualità surreale, anche se entrambi gli eventi sono sold-out. Tutto oro quello che luccica? Mica tanto.

Nel Michigan ci sono i grandi nomi dell'automobilismo USA (Penske, Ganassi, Al Unser jr e il nostro Alex Zanardi, all'epoca rookie) con motori e telai ultimo grido. Eppure le tribune piene sono frutto più che altro degli sponsor che hanno assicurato un cospicuo numero di ingressi gratis.

Ad Indianapolis ci sono 17 rookie su 33 partecipanti (tra i quali Tony Stewart e i nostri Michele Alboreto ed Alessandro Zampedri), tanti sconosciuti e Scott Brayton perde la vita in un incidente durante i turni di qualifica. Sul catino dell'Indiana girano i "soliti" motori Menard e qualche unità con vecchie specifiche, più una lista infinita di telai attempati. La flessione del pubblico sulle tribune è sensibile durante il mese di qualifica, ma non per la gara.

Vincitori e vinti

Il verdetto della pista vede Jimmy Vasser trionfare nella US 500, mentre Buddy Lazier potrà festeggiare con il latte ad Indianapolis. "At least it's Buddy": nella lotta fratricida tra IRL e CART, alla fine è un pilota che frequenta da anni la Serie più famosa ad imporsi in una Indy 500 surreale.

Da una parte c'è lo zoccolo duro di chi "vive" la 500 Miglia di Indianapolis, irritato da come in Michigan si prenda in giro un'istituzione dell'automobilismo americano e mondiale. Dall'altra parte, il mondo CART sghignazza pensando che, proprio ad Indianapolis, abbia vinto un "suo" pilota… solitamente impegnato nelle retrovie con vetture poco competitive.

Il mondo americano delle corse in monoposto esce frastornato da quella giornata. E, guardando in retrospettiva, ne esce con delle minuscole crepe che progressivamente ne intaccheranno la credibilità e il favore del pubblico. L'esplosione nei gradimenti della NASCAR, promossa da prodotto di nicchia per un pubblico redneck verso un appeal più generale, incomincia qui.

Luca Colombo