Non è facile parlare di Gilles Villeneuve per chi non ha vissuto la sua epopea. Se non altro perché sembra di andare a mettere piede in un vero e proprio santuario, un luogo sacro nel cuore di chi c’era. Le atmosfere, le piste, le persone non sono più quelle degli anni ruggenti, l’epoca d’oro delle corse. Eppure… eppure c’è qualcosa che attrae tutti noi race fans verso la figura dell’Aviatore.

Il mito di una generazione

 Immaginate di passare una giornata in una cittadina della provincia emiliana, che nell’arco della sua storia ha visto tempi certamente migliori. Quella fetta di Italia tra il Po e gli Appennini, quella di Don Camillo e Peppone, di Vasco e Ligabue, è conosciuta nel mondo come la Motor Valley, e nei bar o passeggiando per le strade può capitare abbastanza spesso di sentire parlare, magari in dialetto stretto, di macchine, moto e Formula 1.

Tanti locali hanno almeno un gagliardetto appeso alla parete con il logo del Cavallino Rampante in bella vista, inutile chiedersi da che parte tiri il vento. E, immancabilmente, a un certo punto della discussione, ecco alzarsi una voce appartenente a qualcuno che ha superato la cinquantina: “Possono dire e fare quello che vogliono (riferito a entità astratte e non meglio definite), la Formula 1 è morta con Villeneuve. Dopo, niente è stato più come prima!”.

Lì per lì sembra una battuta da bar, di quelle buttate lì un po’ a caso quando si hanno finito gli argomenti. In realtà sotto c’è di più, molto di più. Ci sono gli anni ruggenti di una generazione che aveva trovato nel piccolo uomo venuto dal lontano e freddo Canada un vero e proprio idolo, capace di farli sognare come pochi prima di lui avevano fatto.

Un’eredità pesante per un pilota unico

L’arrivo di Villeneuve alla Ferrari avviene in un momento delicatissimo della sua storia. Il Campione del Mondo Niki Lauda se n’era andato prima della fine della stagione, “vendutosi a un mediatore di salumi”, per dirla con il Drake. E sarà proprio il Grande Vecchio di Maranello, per rispondere a quello sgarbo tutto emiliano fattogli dalla coppia Lauda-Tanzi, a scegliere il canadese per prendere il posto dell’asso austriaco, nonostante la sua scarsissima esperienza. Gilles, infatti, aveva disputato solo un GP a Silverstone, alla guida della McLaren.

È l’inizio della leggenda, anche se nelle prime gare tutto sembra andare in una direzione opposta, con il canadese spesso autore di incidenti spettacolari e pericolosi. Dal biennio successivo, però, cambia tutto, e il pubblico si innamora perdutamente di Villeneuve. Attenzione, però, c’è un particolare che in molti dimenticano di sottolineare: Gilles non è solo cuore e grinta, è anche un gran pilota, che quando ne ha la possibilità vince i Gran Premi.

Il ’79 è l’anno della sua consacrazione, con quel duello incredibile a Digione con l’amico Arnoux e la parata di Monza, a guardare le spalle del team mate Scheckter, incoronato campione proprio nell’autodromo brianzolo.

Il sogno interrotto sul più bello

Quando può, dicevamo, Villeneuve vince. E compie imprese che sembrano impossibili, segno di talento e classe sopraffine. Jarama e Monte Carlo 1981 sono due capolavori assoluti, che da soli basterebbero a dare la misura; due piste tortuose, strette, dove vincere con una vettura turbo sembra impossibile. Ecco allora che entra in gioco il canadese, che con la 126 CK, prima monoposto sovralimentata di Maranello, domina in entrambe le occasioni, mostrando finalmente al mondo di non essere solo un funambolo trita-telai, ma un Campione a tutto tondo.

Finalmente, l’occasione sembra arrivare nel 1982, quando la Rossa è superiore alle avversarie e la lotta per il Titolo sembra un affare riservato a Villeneuve a all’amico-rivale Didier Pironi. Purtroppo, sappiamo tutti cosa avesse in serbo il fato, con i fattacci di Imola e il tragico epilogo sotto il cielo plumbeo di Zolder. L’incidente con la vettura di Mass, il volo e poi la morte all’ospedale di Lovanio hanno messo la parola fine all’esistenza di Gilles, sotto gli occhi increduli di amici, colleghi e fans che si rifiutavano di credere alla sua scomparsa.

Quarant’anni dopo, un mito che non tramonta

Perché, dopo 40 anni dalla sua scomparsa, si ricorda ancora Gilles Villeneuve? Perché è corretto e doveroso farlo, ovviamente, ma c’è di più. E quel di più non è facile da spiegare, lo è molto di più da capire e da vivere. Anche chi ha visto Villeneuve correre a volte sembra in difficoltà a trovare le parole adatte per descrivere la sua guida, le sue vittorie, il suo essere sempre alla ricerca del limite.

Forse basterebbe quella frase, quel “da lì in poi niente è stato più come prima”, a spiegare tutto. A capire che l’automobilismo, come tutti gli sport, non è solo questione di numeri e record, ma di uomini e emozioni. Dopo di lui, pochissimi altri hanno mosso così tanto le masse: Senna sicuramente, Schumacher, anche se in modo diverso, e ora Leclerc e Verstappen stanno in qualche modo ricalcando questo percorso.

Quello che la F.1 dell’epoca regalava ai suoi appassionati era qualcosa di unico; Villeneuve, da par suo, è stato colui che ha incarnato forse al meglio questo spirito, dando tutto sé stesso in pista e nella vita. Quel 27 bianco bordato di rosso sarà per sempre il simbolo del piccolo Aviatore, uno dei pochi di cui Ferrari ha detto: “Io gli ho voluto bene”. Che ne passino altri quaranta, cinquanta o cento di anni: la “Febbre Villeneuve” non accenna a calare!

Nicola Saglia