Chissà quale sarebbe stato oggi il pensiero di Jules Bianchi, a proposito dei dispositivi e delle procedure di sicurezza che caratterizzano l'attuale mondo della Formula 1 e del motorsport. L'halo obbligatorio su tutte le ultime generazioni di monoposto; le Safety Car che intervengono ogniqualvolta c'è un mezzo di soccorso a bordo pista; le gare neutralizzate o addirittura annullate a causa della pioggia. Tutti elementi che, ripensando agli errori ed alle superficialità commesse in quel maledetto pomeriggio di Suzuka, avrebbero oggi potuto salvare la vita del pilota francese. Il cui sogno si spezzò definitivamente dieci anni fa, portando via con sé l'illusione di un'apparente invulnerabilità che, in maniera beffarda, finì per giocare un ruolo fondamentale. E coprendo, al tempo stesso, le responsabilità di troppi attori rimasti impuniti.

La Ferrari nel suo destino

Jules Bianchi sarebbe stato oggi un uomo, e un pilota, alla soglia dei 36 anni. E chissà quali pieghe avrebbe potuto prendere la sua carriera, nel corso di questo periodo: ce lo siamo chiesti tante volte, visto il tragico destino che lo ha strappato alla vita troppo presto, ed in maniera così violenta. Avrebbe con ogni probabilità indossato la tuta rossa, lui che era cresciuto nell'Academy Ferrari e che si preparava a sbarcare in quel di Maranello nella veste di pilota ufficiale. E chissà come avrebbe inciso nella storia della Formula 1, in un'epoca caratterizzata dai tanti cambiamenti tecnici e dai domini firmati prima da Mercedes, poi da Red Bull e oggi da McLaren. Una cosa è certa: suo malgrado, quanto accaduto a Jules ha finito per ricoprire un ruolo importante nell'epoca moderna del motorsport, probabilmente decisivo per salvare altre vite. Una magra soddisfazione, certo: ma se non altro il suo sacrificio non è trascorso invano. E se oggi possiamo contare su misure di sicurezza ancor più all'avanguardia rispetto a dieci anni fa, la “spinta propulsiva” è arrivata in gran parte proprio dal tragico episodio di Suzuka.

L'imbarazzante indagine della FIA

Dieci anni possono sembrare un'eternità. Eppure, è come se fosse ieri. Quando la notizia iniziò a rimbalzare nelle redazioni di tutto il mondo, venne accolta con un misto di rassegnazione, tristezza e persino sollievo. Nell'apprendere che quella lunga battaglia con la vita, durata oltre sette mesi, si era conclusa con un verdetto che era già scritto in partenza. Aveva smesso di soffrire, ma dopo aver fatto ciò che più amava. Perchè la luce, per Jules e i suoi familiari, si spense in quel pomeriggio giapponese, in un incidente dalla dinamica tanto drammatica quanto anomala. Ma non per questo imprevedibile, anzi. Le responsabilità, evidenti sin dai primi momenti successivi al botto, sarebbero poi finite per naufragare insieme alla pioggia di Suzuka. Trovando sfogo in una cervellotica indagine interna della Federazione che avrebbe archiviato il tutto con una gigantesca auto-assoluzione. E persino individuando in colui che non avrebbe potuto difendersi come principale colpevole di quanto accaduto. Uno sgarbo che Jules non avrebbe mai meritato di ricevere, da quello che per lui aveva rappresentato il “suo” mondo.

Di certo, quella parte di mondo composto da amici, colleghi e tifosi, non lo ha mai dimenticato. Non ha dimenticato la sua gentilezza e il suo sorriso, capaci di trasformarsi in feroce determinazione non appena abbassava la visiera del casco. Doti che lo avrebbero sicuramente portato lontano, magari sul trono del Mondiale. In fondo, non c'è nulla di male nel continuare a sognare.

Marco Privitera