In questa epoca di politically correct a tutti i costi, di petroldollari e DRS, parlare di James Hunt significa per certi versi effettuare un esercizio di astrazione. Sì, perché negli anni il londinese è diventato il simbolo di un’epoca ormai passata, sepolta sotto uno strato fatto di pagine di giornali, libri e polvere che ne trattengono ancora oggi l’essenza, e la trasmettono fino a noi.

L’eccesso come stile, e non solo di vita

Quando si parla di sportivi al massimo livello, spesso, fa rabbia vedere come vengano ricordati più per episodi extra-lavoro che per quanto mostrato in pista, in strada o in qualunque campo di gara. Inutile dire come James Hunt rappresenti uno dei massimi esempi di questa tendenza, tanto che spesso qualcuno tende a dimenticarsi del titolo vinto nel ’76.

Non che il buon James abbia fatto tanto per smentire la propria fama. I suoi eccessi tra alcol, droga, fumo e donne (tutte cose che al giorno d’oggi potrebbero far licenziare in tronco qualsiasi driver) diventarono leggendari a cavallo degli anni ’70, anche quando le prestazioni cominciarono a calare. Ma attenzione, perché gli eccessi di Hunt non erano certo limitati alla vita mondana, nossignori.

Il soprannome affibbiatogli in madrepatria nei suoi primi anni di gare parla da solo: The Shunt, Lo Schianto. E non era certamente solo per l’assonanza con il cognome; il botto e la conseguente scazzottata con James Morgan al Crystal Palace sono un esempio su tutti. Incidenti, botte, ma anche vittorie, pole e giri veloci: tutti gli eccessi racchiusi in una persona sola.

Il rispetto di Niki, e quel legame con Gilles

Cosa può dare ancora più lustro e risalto alla carriera di un pilota rispetto al titolo di Campione del Mondo F.1? Forse il rapporto instaurato con i rivali in pista. E qui, bisogna ammetterlo, James Hunt è stato un vero esempio, perché rispettato e ben voluto da molti membri del Circus con cui si trovava a battagliare in pista.

Primo fra tutti il suo più grande rivale. Sì, proprio colui che sarà poi definito l’”Uomo Computer”, l’austriaco che ha riportato la Ferrari al successo: Niki Lauda. Caratteri diversi, certo, ma proprio per questo non così lontani, e qui occorre aprire una parentesi. Rush è certamente un gran film, un capolavoro che descrive alla perfezione l’ambiente delle corse di quegli anni. Ma sul rapporto tra i due, beh, qui il regista Ron Howard ha dovuto calcare la mano per ovvie esigenze cinematografiche, come è giusto che sia.

La realtà è che la stima di Niki per James fu sempre molto elevata, tanto da considerarlo uno dei pochi avversari “degni” di batterlo. Fuori dalle piste, tra le altre cose, i due condividevano un appartamento a Londra per (come definirli senza essere censurabili nel 2023?) gli “appuntamenti galanti”, rigorosamente a giorni alterni.

Ma anche Hunt aveva il grande pregio di riconoscere il talento degli avversari, cosa che lo rese poi un apprezzato commentatore televisivo. Tra gli altri, ebbe la lungimiranza di suggerire alla McLaren di ingaggiare Gilles Villeneuve nel ’77, dopo che l’anno precedente lo aveva battuto in F. Atlantic sulla pista di Mont Tremblant. Inutile sprecare troppe parole: i fuoriclasse, tra di loro, si riconoscono al primo sguardo.

Il “sesto Beatle”… su quattro ruote

Una decina di anni prima, un altro piccoletto, questa volta moro e proveniente dalla periferia di Belfast, aveva fatto battere i cuori degli inglesi. Sui prati di mezza Europa, quel nordirlandese elegante e praticamente inarrestabile, con i capelli a caschetto neri che lo fecero rinominare “Il quinto Beatle”, ha indossato la casacca numero 7 di una delle squadre più iconiche della storia del calcio, il Manchester United. Il suo nome era George Best, uno dei più forti calciatori mai esistiti.

Ecco, può sembrare solo una suggestione priva di fondamento, ma le vite dei due, Hunt e Best, hanno tanti aspetti in comune, a partire da un vero e proprio autolesionismo nel periodo di maggior splendore. E proprio da qui deriva il più grande parallelismo tra le due carriere; entrambe, infatti, furono relativamente brevi, due vere e proprie meteore.

Due così, James e Georgie, non potevano durare troppo ai massimi livelli, ma, nonostante questo, sono stati consegnati all’immortalità. Le loro immagini, giovani, sorridenti e pieni di vita, sono impresse a fuoco nella memoria degli appassionati e di coloro che hanno cercato di ripercorrerne i passi. Un esempio su tutti Kimi Raikkonen, presentatosi a Monaco nel 2013 con il casco replica di quello del suo idolo. James Hunt, ça va sans dire.

Allora oggi, a 30 anni dalla sua morte in casa a Wimbledon, non resta che ricordarlo così, il buon James, con un sorriso, i capelli al vento e, perché no, una bella ragazza sotto il braccio.

Nicola Saglia

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