Baffi neri, jeans blu e occhiali da sole scuri perennemente incollati al viso. No, non stiamo parlando di Tom Skerrit in Top Gun, ma di un’altra leggenda a Stelle e Strisce: Dale Earnhardt. Un vero e proprio mito degli anni d’oro della NASCAR, la più popolare categoria d’oltreoceano, capace di portarsi a casa per sette volte la Winston Cup. Ma non sono solo i numeri a darci la misura del personaggio: c’è di più, molto di più.

Quella Chevy nera, tra sorpassi e sportellate

Tra poche ore la bandiera verde sventolerà sui diabolici banking di Daytona, e le potentissime stock car della NASCAR scateneranno tutti i loro cavalli cercando il successo nella classica 500 Miglia che apre la stagione, e spesso la vale. E allora, con la mente, gli appassionati non possono non tornare a quel giorno di febbraio, proprio il 18, in cui il vecchio Intimidator ha concluso la propria vita, proprio qui, sull’ovale che lo ha visto trionfare per ben 34 volte.

Spiegare cosa fosse il mondo NASCAR a cavallo tra gli anni ’70 e gli ’80, per sfociare poi nei Ninties, beh non è facile, guardandolo con i nostri occhi. Diciamo che Giorni di Tuono con Tom Cruise rende l’idea, anche se probabilmente in una versione molto edulcorata. Era il vero e proprio paradiso dei Redneck, come vengono amabilmente definiti gli operatori agricoli nel Sud degli States. E in questo tripudio di birra, scazzottate, Country music e gare piene di duelli senza esclusione di colpi, Dale Earnhardt ha costruito la sua leggenda.

Figlio d’arte (papà Ralph fu campione Nationwide), ha passato praticamente tutta la carriera alla guida della sua Chevrolet nera con il grande 3 bianco ben stampigliato sulle fiancate. Guardate il numero e il font, vi ricorda qualcosa? Ci torneremo più avanti! Negli anni ’80, leggendaria divenne la sua rivalità con Darrell Waltrip, di cui però divenne anche grande amico. Dal ’90 al ’94, poi, fu in grado di vincere ben quattro Winston Cup di fila, che sommate alle tre vinte nella decade precedente fanno sette totali. Non male davvero.

Nessun rimpianto, nessuna pietà

Non aveva nessuna pietà dei rivali, mister Dale Earnhardt. Se lo chiamavano Intimidator un motivo doveva pur esserci. Non chiedeva scuse e non ne dava a nessuno. Lo scoprì a sue spese, tra i tanti, Al Unser Jr., spedito a muro a Daytona senza troppi complimenti nel ’91. Tornando ai box, incrociò il veterano Rusty Wallace, che gli disse semplicemente: “Adesso hai capito perché tutti noi non sopportiamo Dale”.

Un mondo, il suo, diviso in due. Da una parte la sua famiglia, il suo team, i suoi tifosi, dall’altra i rivali e tutti quelli che lo odiavano, o per meglio dire, amavano odiarlo. Sì, perché nel mucchio, Earnhardt non era certo tra i buoni, ma neanche il peggiore dei cattivi. E sul finale della carriera aveva deciso di darsi all’Endurance, partecipando alla 24 Ore di Daytona (sempre lì, ancora in quel posto magico). “Vedo nuovi orizzonti ora, vorrei portare mio figlio a Le Mans”.

Quel maledetto giorno a Daytona

A metà degli anni ’90, Dale fondò la propria squadra, Dale Earnhardt Racing, che tra le proprie fila vide debuttare il figlio del boss, Dale Jr, in pieno stile yankee. Ecco, se nel motorsport esistono il destino, la sorte, i presentimenti o quant’altro, quel 18 febbraio a Daytona probabilmente li porterebbe tutti con sé. “Vorrei solo andarmene nel modo giusto; a quasi 50 anni, è l’unica cosa che rischio di sbagliare. Gli addii di Petty e Foyt mi hanno messo tristezza”. Queste sue parole alla vigilia della Daytona 500 2001 mettono i brividi anche a più di 20 anni di distanza.

Perché in quella gara per il team Earnhardt fu doppietta, con Michael Waltrip a precedere Dale jr. Ma, nelle retrovie, un incidente andò a rendere confuse le fasi finali della corsa. Una cosa normale, sembrò in un primo momento, niente di particolarmente pericoloso o spaventoso, in cui però era stato anche coinvolto il vecchio Intimidator.

Purtroppo, una serie di fattori coincidenti portò alla frattura della base cranica, e per Dale non ci fu niente da fare: la corsa in ospedale fu inutile, e il mondo della NASCAR si trovò a piangere uno dei suoi eroi più grandi, l’erede di King Petty, passato attraverso tanti botti tremendi, in un assolato giorno d’inverno. Il tutto sotto gli occhi del figlio, fermatosi a bordo pista al termine della gara.

C’è una canzone di uno dei maggiori interpreti Country rock attuali, Eric Church, intitolata A man who was gonna die young. Rileggendola, pare di sentire la voce di Earnhardt; un uomo semplice, rivestito da una corazza di spacconeria e coraggio, che va incontro al proprio destino.

La leggenda continua… anche nel Circus!

Lo chiamavano Intimidator per il suo modo di correre, sempre al limite, sempre pronto a rifilare botte a destra e sinistra pur di arrivare alla vittoria. Impossibile spiegarlo a chi è cresciuto tra Stories su IG e track limits: Dale Earnhardt, come la NASCAR di quegli anni, era un’altra cosa. Ma Dale Earnhardt era in realtà anche molto di più: un uomo semplice, schivo, una persona normale, che in pista si trasformava diventando una vera belva da gara.

E allora non c’è niente di più bello di vedere la tradizione continuata dal figlio Dale jr, ottimo pilota NASCAR a sua volta e ora apprezzato team owner e commentatore. Ma, attenzione, perchè c’è un legame forte anche con il Circus della F1. Dicevamo del numero 3: non è un caso che Daniel Ricciardo lo abbia scelto come “distintivo” in gara, andando in qualche modo a ricordarlo anche nel font nei suoi anni in Red Bull e Renault.

L’australiano si è sempre professato un grande fan di Earnhardt, andando ad omaggiarlo anche con caschi speciali nelle occasioni in cui la F1 ha corso negli States. Tra l’altro, Ricciardo ha avuto modo di guidare la mitica Chevy Monte Carlo #3 prima del GP degli Stati Uniti 2021, grazie ai buoni uffici di Zak Brown; un bel premio dopo la sua vittoria di Monza.

Un grande del passato Dale Earnhardt. Ma no, non può essere solo il passato che ci parla. È il presente: per uno così, andarsene è solo un altro modo per farsi beffe della morte e restare a correre davanti a tutto il gruppo, anche se non lo vede nessuno. Buona Daytona 500!

Nicola Saglia

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