IndyCar | Amarcord: Indy 505 e il trionfo di Villeneuve
Trent'anni fa Jacques Villeneuve trionfava nella Indy 500: il 1995 passerà agli annali come un'edizione folle della 500 miglia, ma segnerà la fine di un'era

La chiamano ancora The greatest spectacle in racing, ma l'ultimo spettacolo vero che la 500 miglia di Indianapolis ha regalato ai propri tifosi è datato 28 maggio 1995, una combinazione anno-posto-ora non proprio “dietro l'angolo”, visto che stiamo parlando di trent'anni fa.
Indy 505?
Per i duri e puri della classica dell'Indiana quell'edizione passerà alla storia come Indy 505 e il motivo (tenendo conto delle 2,5 miglia di lunghezza del catino) è stato meravigliosamente cristallizzato da Paul Page, quel giorno impegnato a commentare la diretta televisiva negli USA, all'esposizione della bandiera bianca:
"Si racconterà che Jacques Villeneuve è riuscito a recuperare due giri e a vincere la 500 Miglia di Indianapolis".
Liquidare l'edizione 1995 con l'inaspettato trionfo di Jacques Villeneuve, penalizzato a un quarto di gara per aver sorpassato la pace car, è riduttivo, perché il risultato finale è stato il culmine di un month of may caotico (come titolava un articolo dedicato sul sito ufficiale dell'Indianapolis Motor Speedway) che ha caratterizzato l'ultima vera Indy 500, prima della dolorosa scissione passata alla storia dell'automobilismo come The Split.
Il “mese del caos”
Tony George, presidente dell'Indianapolis Motor Speedway, aveva annunciato, proprio durante il mese di preparazione della classicissima, l'intenzione di dare vita a una serie rivale della CART. Nessuno poteva (o voleva) prendere seriamente in considerazione la posizione di George, visto (tra le altre cose) il giro di soldi generato dall'evento ed il campionato, come spiegherà a posteriori Jimmy Vasser:
"Pensavo che non ci fosse alcuna possibilità di una separazione e che non saremmo tornati l'anno successivo. Semplicemente non poteva succedere".
In un certo senso, come si poteva anche soltanto credere ad un'incombente separazione? Firestone era tornata alla 500 Miglia per la prima volta dal 1974, Honda era finalmente in pista ad Indianapolis (dopo il flop del 1994, tra l'altro con il motore accreditato del maggiore regime di rotazione) e la CART era nel suo periodo di massimo interesse, con tre telaisti in gara e gli ignorantissimi motori V8 da 2.65 litri, single turbo.

I ritiri eccellenti (l'ultimo in ordine di tempo, quello di Mario Andretti) avevano portato ad una gara con meno campioni in pista, ma il ricambio generazionale era lì, capitanato da un rookie di belle speranze, Gil De Ferran. C'erano tutte le premesse per un'edizione spettacolare e per un futuro interessante, tanto che Vasser dichiarerà:
“Tanti [nella Indy 500 del 1995, ndR] avevano una possibilità di vittoria”.
Tanti, ma non tutti: tra i piloti senza possibilità di vittoria figuravano degli elementi insospettabili.
Penske non parte
Le statistiche parlavano di quarantacinque pretendenti ad un posto tra i trentatré in griglia. Tra le varie combinazioni pilota / vettura iscritte, spiccava quella di Michael Greenfield, ultimo tra i sognatori folli sul catino dell'Indiana, a bordo di una Lola T93/00 spinta da un motore di tipo pushrod disegnato dal padre. Nell'edizione precedente della Indy 500, quella del 1994, Penske aveva dominato proprio con un motore pushrod (il Mercedes-Benz 500I), costruito appositamente per quella gara.
Poiché The Beast (il nomignolo dell'unità propulsiva di cui sopra) sfruttava fin troppo un'apertura regolamentare (mirata, nelle intenzioni, a portare in pista motori provenienti da produzione standard) che garantiva ai motori pushrod una pressione di sovralimentazione maggiore e una cilindrata aggiuntiva rispetto alle architetture multi-valvola, USAC e CART avevano legiferato in maniera tale per cui qualcosa del genere non capitasse più, temendo vantaggi ingiusti a fronte di aumenti stellari dei costi.
Subdolamente, non erano stati posti divieti espliciti per il 1995 in merito a quell'architettura propulsiva, ma solo una significativa riduzione dei livelli di pressione di sovralimentazione consentita, che ne aveva di fatto decretato la messa al bando. Come in una partita a battaglia navale, Penske era stata colpita e (lentamente) affondata.
Nonostante due vittorie (a Long Beach e a Nazareth) nelle cinque gare prima della 500 Miglia, la scuderia di Roger Penske sapeva già dai test di aprile che avrebbe avuto difficoltà a “fare la velocità” necessaria ad Indianapolis. Radio-box puntava il dito verso problemi di maneggevolezza del telaio (probabilmente già presenti nel 1994, ma nascosti dalla bontà del motore), tuttavia la “frittata” era fatta e il team del Capitano aveva perso completamente la bussola.
Mentre Scott Brayton ritoccava il record sul giro in prova (in data 11 maggio) ad una media di 234.322 mph (375,5 km/h) e ripeteva la magia anche durante le qualifiche, con una strepitosa pole position alla media di 231.604 mph, all'interno della prima fila più veloce della storia (tre vetture, tra l'altro non impegnate a tempo pieno nel Campionato, con una media oltre i 230 mph), Penske marcava visita nel Pole-Day e vagava confusa verso il Bump-Day.

Al Unser jr, vincitore dell'edizione 1994, aveva rotto un motore all'inizio delle qualifiche, girava lentissimo e aveva cercato miglior fortuna con una T-car del team Rahal-Hogan, riverniciata alla bene e meglio, prestata a Penske, ma non aveva ottenuto niente. Emerson Fittipaldi, vincitore dell'edizione 1993, aveva seguito lo stesso iter del compagno di squadra, giocando (su consiglio della scuderia) un waive del giro migliore nel penultimo giorno: una pessima scelta, visto che nel Bump-Day avrebbe girato più lento, vedendo nelle ultime battute il sorpasso e l'estromissione dalla griglia da parte di Davy Jones e Stefan Johansson.
La scuderia vincitrice delle ultime due edizioni non avrebbe schierato monoposto al via; dirà Al Unser jr:
"È stato surreale. Non importa quale decisione fosse presa: erano tutte sbagliate. Ce n'erano così tante".
Un dito medio e via
Dopo un mese passato con il rischio pioggia, la gara prendeva il via in una giornata ventosa, con folate di intensità crescente con il progredire della gara e raffiche trasversali in rettilineo.
Alla bandiera verde il catino dell'Indiana dimostrava tutta la propria brutalità. Habitué della Indy 500 tra gli Anni Ottanta e Novanta, Stan Fox aveva preso il via dalla quarta fila: dopo aver perso il controllo della vettura in curva 1 al primo giro, andava ad impattare contro Eddie Cheever. La collisione aveva sollevato la monoposto sopra il muro di cemento, strappando il muso e scoprendo le gambe e il corpo di Fox.
Negli anni, le immagini crude dell'impatto hanno preso posto nell'immaginario comune di quell'edizione. Nonostante una contusione al piede come unica lesione esterna, il pilota era stato portato in ospedale con ferite alla testa: operato immediatamente, si riprenderà, ma non sarà più la stessa persona e la sua carriera automobilistica finirà lì.

Gli incidenti (sebbene meno cruenti di quello al via), gli interventi della pace car (non sempre precisi) e le varie penalità in corsia box hanno dato da fare alla direzione gara, ma soprattutto hanno scritto le sorti della competizione. Al giro 37 improvvisamente si materializzava un colpo di scena incredibile: Arie Luyendyk mostrava il dito medio a Scott Sharp, doppiato e reo (secondo l'olandese) di un bloccaggio, in curva 1. L'azione provocava il distacco del poggiatesta sulla vettura dell'olandese e una conseguente bandiera gialla per detriti in pista.
All'esposizione della bandiera gialla, Jacques Villeneuve non aveva ancora effettuato la sua prima sosta. Mentre la scuderia di Barry Green stava appellandosi a qualsiasi divinità affinché il canadese avesse abbastanza carburante per rimanere fuori fino all'apertura dei box, nessuno aveva avvisato Jacques di essere in testa, quindi ogni volta che si avvicinava alla pace car, la superava come facevano tutti gli altri piloti.
Probabilmente il team e la direzione gara avrebbero dovuto comunicare meglio e, solo al terzo avvicinamento, uno degli uomini a bordo dalla vettura di servizio aveva segnalato (a gesti) a Villeneuve di rimanere indietro. In merito all'episodio, il pilota canadese dichiarerà:
"Ero davvero molto arrabbiato, credo di aver imprecato un po'. Non sapevo di essere in testa quando è uscita la bandiera gialla. Cercavo solo di tornare nel gruppo. Tutti sfrecciavano oltre la pace car e non me ne sono accorto: stava cercando di fermarmi".
Una volta dichiarata aperta la pit-lane, Villeneuve si fermava per la sua sosta. Nello stesso pit-stop la scuderia agiva lentamente, Jacques quasi partiva con la pompa della benzina attaccata e mandava in stallo la monoposto. Le cattive notizie non finivano qui, perché, tempo dieci giri, la direzione gara riconosceva come il canadese “non avesse preso in carico la pace car”: due giri di penalità, in un istante un balzo dal terzo al ventiquattresimo posto.
Due giri recuperati
Gara finita per il canadese? Non proprio. Nei quasi centocinquanta giri rimanenti tre elementi andavano incontro al ruolino di marcia di Jacques. Innanzitutto il miglioramento del ritmo (facilitato anche dall'impiego di una gomma Goodyear ottimizzata per Indianapolis); Villeneuve dichiarerà:
"Di solito, Indy è una gara in cui non si guida al limite. È una gara lunga, è pericolosa. Ma eravamo lì, con due giri di ritardo, e ho dovuto fare giri di qualificazione lungo tutto il percorso".
Secondariamente, le condizioni atmosferiche del tracciato (vento trasversale lungo i rettilinei) e la presenza di marbles di gomma fuori traiettoria, rendevano oltremodo scivoloso il controllo delle vetture.
Michael Andretti, per esempio, diventava vittima eccellente (e quasi designata visto il “sortilegio” con Indianapolis): nonostante la monoposto fosse "la migliore che abbia mai avuto qui", andare fuori traiettoria equivaleva a “guidare sul ghiaccio” e al giro 77 (nonostante 45 giri in testa) salutava la compagnia per un tocco al muro in curva 4. Mauricio Gugelmin, leader per 59 giri, finiva sesto sotto la bandiera a scacchi, perdendo tempo nelle fasi finali di gara, “come se qualcosa si fosse rotto”.

Il terzo elemento sono state le fasi di neutralizzazione, che sono andate di più incontro alla strategia di Villeneuve e meno ad altri piloti che viaggiavano “fuori sequenza”.
Con Jacques rientrato nel giro del leader, nelle fasi finali si presentavano al comando della gara quattro possibili vincitori: Jimmy Vasser, Scott Pruett, Scott Goodyear e Jacques Villeneuve. Al giro 170 Vasser andava a muro dopo aver preso la linea esterna nel duello con Pruett. Successivamente andava a muro anche Pruett, tradito dal vento e dall'olio in pista lasciato dalla vettura di Raul Boesel, non notato dai commissari di pista.
Al giro 190 Scott Goodyear era pronto a ripartire, in netto vantaggio per vincere la gara. Sarebbe stato un risultato straordinario, considerando che Goodyear non era un pilota a tempo pieno nel campionato. Jacques Villeneuve sapeva che chi lo precedeva era a bordo di un pacchetto migliore:
"Non c'era modo di stargli dietro in pista. Così, sapendo questo, nel giro prima della bandiera verde ho continuato a mettergli pressione, accelerando, frenando, affiancandolo e allontanandomi da lui, cercando di entrare nella sua testa".
A dieci giri dalla bandiera a scacchi, Goodyear non voleva rischiare di essere superato da Villeneuve in curva 1: per questo ha accelerato a metà curva 3, ma quando è arrivato alla curva 4 la pace car era solo al centro della curva. Scott ha tenuto il piede giù, Villeneuve no:
"Quando ci siamo avvicinati alla pace car ho frenato, perché non si può superare la pace car prima che entri ai box. Sapevo che gli avrebbero sventolato la bandiera nera".
Scott aveva sei secondi di vantaggio su Villeneuve un giro dopo la ripartenza, ma a sei giri dalla fine direzione gara gli ha esposto la bandiera nera. Goodyear, determinato a passare la bandiera a scacchi e a discutere della penalità dopo la gara, ha continuato. Mentre il contatore dei giri di Goodyear si fermava in virtù della squalifica, Jacques Villeneuve si involava verso la vittoria della 500 Miglia di Indianapolis, primo canadese a conquistare Indy 500 e primo pilota a vincere al suo secondo tentativo dai tempi di Rick Mears. Vittoria conquistata rimontando due giri…da qui il nome di Indy 505.
Cosa rimane oggi

Una volta calata la bandiera a scacchi, cominciavano i festeggiamenti per Jacques, che saliva al comando del campionato CART. La gara potrebbe concludersi qui, se non fosse per un'ultima dichiarazione di Scott Goodyear:
"Tutti al mondo sanno chi ha vinto questa gara. Sono rimasto fuori perché ai miei occhi [la manovra sotto pace car, ndR] era legittima. E se fossi rientrato e avessi scoperto di non aver commesso alcun errore, cosa avrei fatto? Non si poteva tornare indietro".
Con la coda polemica di Goodyear (che ancora oggi si sente depredato di quella vittoria) si chiude l'edizione 79 della Indy 500 e, purtroppo, non riavremo più niente di simile sui radar del catino dell'Indiana.
Villeneuve, già nel mirino di Bernie Ecclestone (e dei suoi buoni uffici per entrare in una scuderia competitiva), passerà in F1. The Split priverà per anni il campionato IndyCar della sua classica (Jimmy Vasser spesso sottolinea come una perdita mostruosa per l'automobilismo USA il fatto che Alex Zanardi non abbia mai corso a Indianapolis) e quando quest'ultimo tornerà nell'Indiana, non sarà il campionato che aveva raggiunto l'apice di metà Anni Novanta, quando la 500 miglia di Indianapolis arrivava nelle case degli italiani attraverso TMC e la voce di Renato Ronco. Forse eravamo felici e sicuramente non lo sapevamo.
Luca Colombo