Non capita tutti i giorni di avere l'opportunità di avvicinarsi, in un certo qual modo, ad una porzione di mondo appartenuta a colui che ha rappresentato il proprio mito sportivo durante l'adolescenza. Le sue foto, il suo casco, la tuta con la quale conquistò la sua seconda vittoria in Formula 1, a Detroit, nel 1983 con la Tyrrell. Ricordi e immagini che attraversano una vita intera, ed alle quali basta uno sguardo per ricollegarle ad episodi già conosciuti, piuttosto che altre in grado di rappresentare invece una scoperta, soprattutto per chi quel mondo aveva potuto conoscerlo soltanto attraverso gli occhi del tifoso.

Michele Alboreto non è più con noi, da tredici anni, da quel maledetto incidente del 25 aprile 2001 al Lausitzring, eppure la sua presenza si avverte come non mai: forte nei ricordi e nelle memorie dei tanti che, in tutto il mondo, non lo hanno dimenticato. Non hanno dimenticato il pilota, capace di crescere ed affermarsi fino a coronare il sogno di diventare protagonista in Formula 1 al volante della Ferrari, ma anche e soprattutto l'uomo, unanimemente riconosciuto per le sue qualità. Perché Michele era un uomo vero. In un'officina alle porte di Milano, Ermanno Alboreto porta ancora oggi avanti la propria passione per i motori, curando amorevolmente moto d'epoca accompagnato da un energico sottofondo di musica hard-rock.

Ma forse non tutti sanno che il fratello di Michele, il quale ha seguito passo dopo passo la carriera del pilota milanese, condividendone gioie e dolori, è stato anch'egli una promessa dell'automobilismo negli anni '80: capace di salire fino alla Formula 3, prima di vedere la propria ascesa compromessa da un brutto incidente. "Chiaramente il mio è stato un percorso diverso da quello di Michele - confida - lui sin dal principio aveva deciso di puntare tutto sulla propria carriera di pilota, dimostrando alla fine di aver avuto ragione; io alternavo l'attività in pista con il lavoro in officina e dunque non avevo la possibilità di provare come altri, i quali spendevano tempo e denaro. Però, devo dire di essermi tolto qualche soddisfazione: lottavo alla pari con piloti come Dindo Capello e Gianni Morbidelli, prima di rimanere vittima di un incidente a Imola causato da un guasto tecnico". Un guaio che lo costrinse per diverso tempo sulla sedia a rotelle allontanandolo, seppur non definitivamente, dall'attività agonistica: "Ritornai in pista dopo un anno, quando mi fu proposto di effettuare un test a Magione con la Mercedes ex-Laffitte, in vista di un possibile impiego nel CIVT: ma quando, dopo pochi giri, la vettura perse una ruota, capii che forse nella vita avrei fatto meglio a dedicarmi ad un'attività più...tranquilla. L'ultima esperienza l'ho avuta a Monza qualche anno fa, durante una gara per ricordare Michele, in coppia con lo stesso Capello, Pippo Bianchi e Daniele Massaro".

Già, ricordare Michele. Ermanno lo ha fatto, pubblicando lo scorso anno un libro di memorie (intitolato "Alboretro"), i cui proventi sono andati in beneficenza. Ma in tanti continuano a farlo, dai tifosi che scrivono da tutto il mondo fino allo stesso comune di Rozzano, luogo dove la famiglia Alboreto si era trasferita sin dagli anni Sessanta, il quale gli ha intitolato nel corso degli anni una piazza in centro ed un monumento presente all'interno della locale biblioteca. E le istituzioni sportive, quelle per cui Michele si era speso così tanto negli ultimi anni, sino a ricoprire l'incarico di vice-presidente Csai? "Purtroppo le solite battaglie politiche hanno impedito che si rendesse il giusto omaggio alla sua memoria. I tifosi hanno fatto anche delle petizioni affinché fosse intitolata a Michele almeno una curva dell'autodromo di Monza, ma la risposta è stata che allora avrebbero dovuto fare la stessa cosa anche per Pasolini e Brambilla. Una mancanza di volontà politica, insomma. Avrebbero anche potuto risolvere la cosa magari dedicando a ognuno di essi uno dei vialetti interni dell'autodromo, ma purtroppo a tutt'oggi non se n'è fatto nulla".

Michele era una persona schietta, che non si faceva problemi a dire agli altri ciò che pensava realmente: un'attitudine che forse gli ha negato qualche chances, soprattutto a fine carriera. Basti pensare a quanto accadde all'indomani del tragico weekend di Imola 1994, con le sue taglienti testimonianze al processo Senna e la sua forte presa di posizione per limitare la velocità nei box, dopo quanto gli era accaduto durante la gara con i meccanici Ferrari. Parole che probabilmente gli costarono la possibilità di rimanere in Formula 1 al termine di quella stagione: "Da un lato c'è da dire che i giovani spingevano molto e Michele aveva già alle spalle una lunga carriera in Formula 1 - sottolinea Ermanno - ma dall'altro lui aveva sicuramente perso un bel po' di motivazione dopo quanto era accaduto. Inoltre, non c'erano top team con posti disponibili, pertanto decise di guardare altrove, togliendosi delle belle soddisfazione con le ruote coperte, culminate con la conquista della 24 Ore di Le Mans nel 1997".

Per lui la parola data rappresentava un impegno, e così fu anche quando scelse di legarsi alla Ferrari nonostante il team di Maranello stesse attraversando uno dei periodi più bui della propria storia. Poi arrivò Barnard ("con il quale Michele nemmeno si parlava" ricorda Ermanno) e venne il momento di farsi da parte, visto che il team stava prendendo una direzione tutta inglese, conclusasi con l'ingaggio di Nigel Mansell nel 1989. Ma le offerte non mancavano, e l'alternativa per proseguire la propria carriera ad alti livelli era lì ad un passo: si chiamava Williams, la scuderia che nel giro di un paio d'anni sarebbe diventata il punto di riferimento per tutta la Formula 1. Senonché qualcuno venne meno alla parola data: "Con la Williams l'accordo era già definito, mancava solo la firma. Tant'è vero che Michele rifiutò numerose altre offerte, tra cui quelle della Brabham e della Lotus, perché già in parola con Frank Williams. Quest'ultimo però, quando mancavano meno di due mesi all'inizio del Mondiale, gli comunicò che per motivi di sponsor aveva deciso di puntare su Boutsen. A quel punto - prosegue Ermanno - le alternative erano davvero ridotte: riuscì in extremis ad accordarsi con Ken Tyrrell per un ritorno nel suo vecchio team, ma anche lì le cose non andarono nel migliore dei modi. Dopo poche gare, infatti, la scuderia trovò un accordo di sponsorizzazione con la Camel, ovvero la diretta concorrente della Marlboro, che supportava la carriera di Michele in F.1: si ritrovò così di nuovo a piedi prima di concludere la stagione con la Larrousse".

Furono anni difficili, alle prese con vetture poco competitive come la Footwork e la Lola Bms, vissute con tanta dedizione ma anche con la consapevolezza che la grande occasione mondiale, quella datata 1985, era ormai alle spalle: "Purtroppo a metà stagione decisero di cambiare le turbine e da lì in poi ci fu una sequenza ininterrotta di ritiri, che impedirono a Michele di battersi fino in fondo per il titolo con Prost". La Ferrari: il sogno di qualsiasi pilota, figuriamoci per un italiano cresciuto nel mito della Rossa. Ma come vi comunicò Michele la notizia di essere diventato un pilota del Cavallino, alla fine della stagione 1983? "Ad essere sinceri non lo disse a nessuno, forse solo a sua moglie. In Ferrari non volevano assolutamente che la notizia trapelasse prima del dovuto, cosicché noi tutti ne fummo informati al momento del comunicato ufficiale".

Essere il fratello di un pilota di Formula 1 implicava aspetti positivi e meno allettanti: da un lato, c'era la possibilità di girare il mondo ("ma io spezzettavo le mie ferie per poterlo seguire durante i weekend di gara" rivela Ermanno), dall'altro la necessità di dover talvolta presenziare ad eventi cui Michele era impossibilitato a partecipare, anche se si trattava di eventualità che Ermanno non gradiva particolarmente. Però c'era anche la possibilità di conoscere tanti altri personaggi del Circus, anche se già a quei tempi parlare di amicizia tra piloti risultava forse un tantino eccessivo: "C'era più che altro un rapporto simile a quello che si ha con i colleghi di lavoro, anche se Michele aveva stretto legame in particolar modo con De Angelis, Patrese, Boutsen e Cheever, solo per citarne qualcuno".

Quando capita di parlare di persone che non sono più tra noi, spesso ciò avviene in termini forse eccessivamente "buonisti", tendendo a rimarcare gli aspetti positivi rispetto ai lati caratteriali più spigolosi che tutti, chi più e chi meno, posseggono. Ma nel caso di Michele è davvero raro riuscire a trovare una critica, un commento negativo, un ricordo di un episodio poco gradevole. Un gentiluomo, nel vero senso della parola. "Anche a lui capitò di litigare, in pista ma anche con dei giornalisti: sapeva farsi rispettare. Sicuramente, era molto benvoluto innanzitutto perché sempre disponibile e aperto ai tifosi, ma anche grazie alle sue attività benefiche che lo portavano, ad esempio, spesso ad accompagnare ragazzi portatori di handicap a girare in pista a Vairano".

Ma se le cose quel giorno al Lausitzring fossero andate diversamente, se quella gomma non fosse scoppiata causando il decollo della sua Audi, cosa avrebbe fatto oggi Michele Alboreto, alla soglia dei sessant'anni? "Molto probabilmente sarebbe rimasto in Audi, con un ruolo di rappresentanza. Tra l'altro nel 2001 la 24 Ore di Le Mans era l'unica gara stagionale alla quale aveva in programma di partecipare. Tante volte aveva pensato al ritiro, ma voleva togliersi ancora la soddisfazione di conquistare nuovamente quella gara così prestigiosa. Le cose purtroppo sono poi andate diversamente". Riavvolgere la pellicola del destino è sfortunatamente impossibile. Ma chi vive nel cuore di chi resta non muore mai. Grazie Michele.

Marco Privitera