La Formula 1 e l’America. Una relazione a intermittenza, due mondi così vicini e così lontani allo stesso tempo che, nonostante tutto, portano ancora avanti una storia d’amore travagliata, ma anche romantica e antica quanto l’automobilismo stesso. Nel corso dei decenni sono cambiati circuiti, denominazioni, ere, ma il rombo dei motori delle monoposto di Formula 1 ha sempre affascinato moltissimo un Paese che, dalla sua, può comunque vantare una cultura motoristica di tutto rispetto. Proprio uno dei luoghi simbolo del motorsport americano, Indianapolis, fu il primo ad ospitare una prova del Campionato del Mondo di Formula 1: la leggendaria 500 Miglia fece infatti parte del calendario dal 1950 al 1960 ma, a causa delle frequenti diserzioni da parte dei piloti europei, fu esclusa a partire dal 1961.

L’anello ad alta velocità più famoso del mondo tornò ad essere teatro di una gara della classe regina solo diverse decadi più tardi, quando nel 2000 Tony George, proprietario del catino, fece costruire un tracciato adatto alle moderne Formula 1 all’interno dello Speedway. Furono disputate otto edizioni, dal 2000 al 2007, inclusa la tanto discussa edizione del 2005 che vide solo sei vetture al via a causa del ritiro volontario di tutti i team gommati Michelin per questioni di sicurezza. Re della “nuova” Indianapolis fu senza dubbio Michael Schumacher che, nel pieno della sua epopea in rosso, colse ben 5 successi.

Ma torniamo agli anni d'oro. Dopo le rapide comparsate dei tracciati di Sebring e Riverside, a cavallo tra il 1958 e il 1960, nel 1961 il Circus approdò sulla pista che per i 20 anni successivi sarebbe stata la sua casa americana: Watkins Glen. Il Glen, come veniva chiamato da tutti, è un tracciato situato non lontano da New York, in prossimità del lago Seneca. Proprio la vicinanza con la Grande Mela rese ben presto il Gran Premio speciale: oltre ai premi in denaro (decisamente più cospicui rispetto alle altre gare in calendario), molti piloti adoravano l’atmosfera unica che si creava intorno alla pista. I colori dell’autunno facevano ogni anno da cornice a un evento non solo sportivo ma anche culturale, con un pubblico profondamente diverso da quello europeo proprio perché a strettissimo contatto con tutte le nuove correnti artistiche e di pensiero che negli anni ’60 e ’70 presero vita tra le strade di New York. L’albo d’oro del Glen è leggendario: Hill, Clark, McLaren, Rindt, Stewart, Fittipaldi, Cevért, Peterson, Lauda, Hunt, Villeneuve. Tutti campioni il cui nome evoca gesta che hanno scritto alcune delle pagine più belle della Formula 1. Anche al Glen però, come purtroppo in molti altri tracciati dell’epoca, non mancarono le tragedie: nel 1974 fu Helmuth Koinigg a perdere la vita, mentre l’anno precedente si spense in un terribile incidente alle “Esses” proprio Francois Cevért, pupillo di Jackie Stewart e astro nascente destinato con ogni probabilità a diventare Campione del Mondo.

Il GP degli Stati Uniti si è poi sdoppiato a partire dal 1976 con l’introduzione del tracciato cittadino di Long Beach, in California, dove si corse fino al 1983 il Gran Premio degli Stati Uniti Est. Nel 1980 Clay Regazzoni, che nella prima edizione salì sul gradino più alto del podio, fu vittima proprio qui del gravissimo incidente che lo costrinse su una sedia a rotelle. Sempre a Long Beach, anno 1977, Mario Andretti tagliò per primo la bandiera a scacchi, per quella che ancora oggi è l’unica vittoria di un pilota americano nel Gran Premio di casa. Nel frattempo, in quello che era diventato il Gran Premio degli Stati Uniti Ovest, il leggendario Watkins Glen International passava il testimone nel 1980 ad un altro circuito cittadino, quello di Detroit, che fu in calendario dal 1982 al 1988. Intanto, da buon manager, Bernie Ecclestone riuscì a organizzare Gran Premi anche nella dorata Las Vegas (1981 e 1982, entrambi con la denominazione Gran Premio di Las Vegas) e a Dallas nel 1984, dove Nigel Mansell fu protagonista del memorabile finale di gara dove svenne spingendo oltre il traguardo la sua Lotus con il cambio irrimediabilmente rotto. In quegli anni, Michele Alboreto colse le uniche vittorie in Formula 1 di un pilota italiano sul suolo americano, arrivando primo a bordo della sua Tyrrell a Las Vegas nel 1982 e a Detroit l’anno successivo.

Ma stiamo pur sempre parlando di circuiti cittadini e, anche se le strade del Principato erano e sono un’altra storia, dalla metà degli anni ’80 fu il casco giallo e verde di Ayrton Senna a sfrecciare più veloce di tutti gli altri tra i muretti della capitale del Michigan, vincendo nel 1986 e nel 1987 con la Lotus e nel 1988 con la McLaren, nell’anno del suo primo titolo iridato. L’89 vide il circo della Formula 1 abbandonare Detroit e spostarsi su un altro cittadino, quello di Phoenix, ma anche nel caldo dell’Arizona fu Magic a imporsi in due edizioni su tre, battuto solamente nel 1989 dal compagno e rivale Alain Prost che approfittò del suo ritiro per guasto meccanico. Epica fu anche la battaglia targata 1990, che vide un giovane Jean Alesi duellare con il coltello tra i denti con il Campione brasiliano per alcuni giri, mettendo per la prima volta in mostra tutto il suo talento e il suo cuore.

E arriviamo finalmente alla storia recente: abbandonata Indianapolis, la nuova casa della Formula 1 negli USA è Austin, nel Texas, dove Hermann Tilke ha costruito l’ultimo dei suoi “Tilkodromi”. Ribattezzato COTA, acronimo di Circuit of the Americas, questo impianto moderno ha vissuto il primo capitolo della sua storia nel 2012 con il trionfo di Lewis Hamilton, che con la McLaren riuscì a vincere di un soffio su Sebastian Vettel, il quale avrebbe poi rimediato con il successo ottenuto lo scorso anno. Dodici mesi dopo, ad Austin è di nuovo tutto pronto, con la lotta tra Nico Rosberg e Lewis Hamilton ancora apertissima. Si preannuncia un weekend di fuoco in Texas: buon divertimento.

Stefano Russo

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