Nel 1982 la 500 Miglia di Indianapolis non presenta gli stringenti regolamenti attuali (mutuati dall'IndyCar) e la creatività di tecnici può esprimersi quasi senza limiti: in questo contesto prende forma la più strana tra le entry a Indy 500, la Eagle Aircraft Flyer Special.

Cento e più anni di storia della 500 Miglia di Indianapolis hanno affascinato proprietari e tecnici nel far correre sul catino più famoso del mondo i progetti più strani o all'avanguardia. Come non citare, per esempio, la Marmon Wasp, prima vincitrice nel 1911, che montava uno specchio retrovisore (novità assoluta per l'epoca). Da lì in poi vedremo monoposto a sei ruote, vetture asimmetriche spinte da turbina, architetture super-obsolete con motore anteriore e...la Eagle Aircraft Flyer Special.

Biplani

La fase discendente degli Anni Settanta, precisamente il 1977, vede l'ingegnere aeronautico Dean Wilson fondare a Boise, Idaho, la sua fabbrica. La Eagle Aircraft Company produce aeroplani: non parliamo di grossi aerei di linea, ma di velivoli più piccoli. Wilson sa abbastanza il fatto suo per quanto riguarda gli aeromobili, così progetta e vende il modello Eagle DW.1, un piccolo biplano per uso agricolo (spruzzo di pesticidi e fertilizzanti).

Nella stessa finestra temporale le Lotus 78 e 79 di Colin Chapman sdoganano l'effetto suolo in F1. La novità travolge l'universo delle competizioni a quattro ruote e anche il cosmo dell'IndyCar e di Indy 500 non ne rimane immune. La nuova soluzione miracolosa e l'approccio open-to-all della classica dell'Indiana attirano come una calamita chiunque pensi di avere l'asso nella manica.

Joe Turling

Segnaliamo subito un piccolo caveat: la vicenda di questa strana monoposto si perde nelle nebbie del tempo. Gli annali non aiutano, soprattutto per quanto riguarda dati e date. La vettura stessa, come vedremo, ad un certo punto sparirà letteralmente dai radar. Parecchi dettagli di quanto riportato da qui in poi verranno mutuati da un'intervista concessa qualche tempo fa da Kenny Hamilton a Marshall Pruett.

Anno 1982: Joe Turling, milionario americano con il pallino delle corse, è convinto di avere l'asso nella manica per sbancare a Indianapolis. Ricetta semplice, la sua: se l'effetto suolo ha a che fare con l'aria, chi meglio di un esperto di aerodinamica può trovare la soluzione vincente?

Sulla base di questo ragionamento Turling fa la spesa nell'Idaho. Prima convince Wilson, affidando il compito di disegnare la vettura da consegnare alla gloria. Poi mette sotto contratto Kenny (Ken) Hamilton, pilota non di primissimo pelo proveniente da Boise e con un curriculum nelle corse Midget su sterrato. Il piano è talmente semplice e centrato sull'obiettivo che nulla lo può fermare, almeno in teoria.

Mostruosità in pista

Lasciando da parte per un attimo la teoria, nella pratica bisogna tenere in debita considerazione un dettaglio. Dean Wilson conosce molto bene gli aeroplani, ma non così tanto (probabilmente per niente) le auto da corsa. Detto questo, Wilson va nella sua officina e comincia a stendere il blue-print.

Per qualche motivo misterioso, il progetto di Wilson non prevede canali Venturi o strutture per convogliare l'aria nel sottoscocca. Se ben guardiamo, l'Eagle Aircraft Flyer Special appartiene ad una concezione tecnica completamente diversa. Di sicuro non sfrutta l'effetto suolo. La monoposto presenta un telaio molto stretto, dal quale spiccano delle enormi strutture laterali che fungono quasi da carena per sospensioni e ruote.

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Gli alettoni anteriori e posteriori praticamente non esistono e l'enorme profilo posteriore, chissà quanto deportante, va a fare integrazione nelle enormi strutture sul retro della vettura. Proprio la zona finale del telaio va a rastremare, disegnando una forma che richiama la coda di un biplano. Vista da fuori la monoposto presenta un passo eccessivamente esteso.

Altri dettagli

La forma lascia un po' a desiderare e la situazione non va di certo meglio guardando la costruzione della monoposto. Anche qui non mancano le deviazioni allo stato dell'arte dell'epoca, ovvero la monoscocca in alluminio honeycomb, e non per l'impiego di materiali compositi all'avanguardia.

Wilson rispolvera un'obsoleta costruzione del telaio con tubi in cromo-molibdeno, vestiti da una carrozzeria in fogli di alluminio. La lista dei materiali non finisce qui, perché alcuni particolari (come le superfici laterali dell'ala posteriore) sono in balsa da aviazione e...compensato.

Completa l'opera un enorme airscope separato e in posizione posteriore rispetto al rollbar, che fa respirare uno Chevrolet V8 da 5,8 litri aspirato, stock-block, ad iniezione ed accreditato di circa 730 hp. I radiatori posizionati su quella che dovrebbe essere l'ala anteriore e il posto guida orrendamente avanzato mettono la ciliegina sulla torta.

Ai box

Perché usiamo "orrendamente" per descrivere il posto guida? Semplice: la pedaliera è posizionata a sei pollici dalla punta del naso. Hamilton dunque corre con i piedi a quindici centimetri di distanza dai muretti del catino. La storia racconta che il buon Kenny, visti i progetti e la realizzazione, chieda qualche lume in più sulla monoposto.

Leggenda vuole che, una volta ad Indianapolis, Ken azzardi una richiesta sull'aggiunta di qualche superficie laterale che vada a convogliare l'aria e garantire deportanza. La risposta è semplice: no. La monoposto non funziona ad effetto suolo, ma, testualmente, "con gli effetti dell'aria".

Un'altra storia, tramandata oralmente di generazione in generazione, vede Hamilton, ancora prima di essere definitivamente sconvolto dalla guida, attivare i suoi buoni uffici e contatti nel mondo delle corse in automobile per ottenere un rinforzo su elementi della sospensione e della trasmissione. E, probabilmente, anche l'acquisizione dell'unico elemento buono della vettura, il motore, avviene grazie a lui.

In pista

Maggio 1982, la data precisa non importa: la vettura scende in pista. Come da previsioni, la monoposto non genera abbastanza carico aerodinamico e, una volta sul catino, pare impegnata in un pericoloso balletto. Nel primo giro completo Hamilton non raggiunge neanche le 175 miglia orarie (e la velocità media di qualifica è attorno alle 190 miglia orarie).

Possiamo già parlare di miracolo. Il pilota americano, vistosamente a disagio nella guida del mostro, sovente perde il controllo e di certo non ha colpe. In questa situazione difficile, accade l'inevitabile. Il retrotreno della vettura stalla a metà di una curva. La monoposto va in testacoda più volte, per poi fermarsi definitivamente. Miracolo nel miracolo, Hamilton non urta nulla, così la vettura viene rimessata ai box.

Fine di tutto

Dopo aver controllato tutto, Ken viene rispedito in pista, completa un giro toccando le 182 miglia orarie e perde di nuovo il controllo. Stesso film dell'avventura precedente: testacoda a ripetizione, miracolosamente nessun urto e altro ritorno ai box. Proprio nella Gasoline Alley questa volta Hamilton getta la spugna, perché va bene che le corse siano pericolose, ma con questa monoposto si esagera.

Da quel momento la Eagle Aircraft Flyer Special non girerà mai più: non ad Indianapolis, non nell'IndyCar e nemmeno da altre parti. Turling e Wilson abbandonano il catino, lasciando Ken Hamilton da solo...con la vettura. Non sapendo cosa fare, Hamilton prima rivende il motore per coprire alcune delle spese vive derivanti dalla "partecipazione" e poi porta a casa la monoposto.

Chi l'ha vista?

La Eagle Aircraft Flyer Special rimane per anni nelle mani di Kenny Hamilton. Ron Hemelgarn (proprietario di una scuderia in IndyCar fino ai primi anni Duemila) acquista la vettura da Hamilton a cavallo del nuovo Millennio. Il lavoro di restauro riporta la monoposto nella stessa condizione in cui uscì dalla fabbrica. Siamo nel 2001, ma sfortunatamente la scuderia di Hemelgarn fallirà qualche anno dopo e, con la sua dissoluzione, scomparirà nel nulla anche la Eagle Aircraft Flyer Special.

Nessuno, ad oggi, pare sapere che fine abbia fatto la monoposto. Su Internet la vettura gode di una certa popolarità, soprattutto tra i tifosi più hardcore della Indy 500. La vettura meriterebbe l'esposizione in un museo? Probabilmente sì: ricorderebbe un'epoca di sogni troppo grandi e dosi ancora più esagerate di ottimismo e sicumera. Tuttavia, considerando la difficoltà nel reperirne informazioni sui canali istituzionali, viene quasi da pensare che la 500 Miglia di Indianapolis o l'IndyCar vogliano dimenticare un episodio fin troppo assurdo (ai limiti della stupidità) della propria storia.

Luca Colombo

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