Il 7 aprile del 1985, sul circuito brasiliano di Jacarepaguá, nasceva la leggenda del Team Minardi in Formula 1. Un manipolo di soli tredici uomini, partiti da Faenza, si apprestava a fare il debutto nella massima serie. Una storia lunga, fatta di attimi di gloria, periodi difficili, ma soprattutto di tanta grinta per portare avanti una passione, quella di Giancarlo Minardi. Un sogno che fortunatamente rivive e pervade gli animi di chi, ogni anno da un po’ di tempo a questa parte, si reca a Imola per i Minardi Day.

L’inizio della favola

Ma andiamo con ordine e partiamo dall’estate 1984, quando un giovane Minardi decide di fare il salto e passare dalla F2, ormai giunta al capolinea, alla massima serie. Il giovane faentino si reca a Milano per spuntare un contratto con l’Alfa Romeo che gli fornisce il suo 8 cilindri turbo. Con una scuderia di 22 uomini guidati dall’ingegner Caliri nasce la M184. I primi test sono incoraggianti: Alessandro Nannini si dimostra subito veloce e la monoposto è anche affidabile, tanto da pensare ad un debutto nelle ultime gare della stagione. Ma purtroppo arriva la prima, di una lunga serie, di docce fredde: l’Alfa decide di stoppare la collaborazione e di non fornire i suoi propulsori. Minardi incassa e cerca subito una nuova strada.

L'esordio nel Mondiale

Si arriva così al debutto, col fiato in gola, della M185 dotata di un motore Cosworth, e al volante Pierluigi Martini. La prima uscita in Brasile termina anzitempo con un ritiro ma il ghiaccio è rotto, prossimo step cambiare il motore con uno più performante. Per questo nasce la collaborazione con la Motori Moderni di Carlo Chiti, fuoriuscito dall’Autodelta. Il 6 cilindri turbo esordisce a Imola nel GP di San Marino. Ma sia l’affidabilità che la velocità dei motori non è il massimo, con i propulsori che esalano l'ultimo respiro quasi ad ogni Gran Premio. Il matrimonio con la Motori Moderni dura fino al 1987 con modesti risultati e, nonostante i vari Martini, De Cesaris e Nannini, non c’è verso di far decollare il binomio tutto italiano.

Il 1988 segna il passaggio all’aspirato Ford DFZ e alla coppia Perez-Sala e Campos, quest’ultimo dotato di una valigia inversamente proporzionale alla sua maestria col volante. Alla fine lo spagnolo viene sostituito da Martini che, tornato a “casa”, è autore di una prestazione maiuscola sul cittadino di Detroit, conquistando un magnifico sesto posto nonché il primo punto iridato della scuderia di Faenza. L’anno successivo, complice una monoposto totalmente nuova disegnata da Nigel Coweperthwaite, è uno dei migliori della Minardi con il campionato chiuso in undicesima posizione e il primo doppio arrivo a punti: a Silverstone con un quinto posto di Martini seguito da Sala.

I primi anni ’90 e la continua ascesa nel Circus

Il ’90 inizia con la prima fila di Martini a Phoenix, ma è l’unico acuto di un’annata avara di emozioni. Ci sono grandi attese per l’anno successivo per via del sodalizio con la Ferrari. La M191, dotata del 12 cilindri Ferrari, si issa al quarto posto con Martini a Imola, bissato poi in Portogallo e terminando al settimo posto nel campionato costruttori. Le aspettative erano decisamente più alte e così, nel 1992, si passa al Lamborghini progettato da Mauro Forghieri. Anche in questo caso, però, i risultati sono scarsi, con il solo guizzo finale di Christian Fittipaldi giunto sesto in Giappone.

L’anno della svolta è, quasi per assurdo, anche quello più difficile a livello economico: gli sponsor latitano e Minardi è costretto a chiedere la collaborazione degli industriali della provincia emiliana. Nasce così la M193, una monoposto realizzata a quattro mani da Gustav Brunner, ex March, e un giovanissimo Aldo Costa. La vettura è la più innovativa della scuderia faentina e conquista l’ottavo posto nel campionato costruttori. Arriva anche la fusione con la Scuderia Italia e il 1994 inizia con i migliori auspici: un budget di 30 miliardi di lire e un pilota del calibro di Michele Alboreto, affiancato dall’inossidabile Martini. Ma i risultati scarseggiano con i due piloti che conquistano in tutto cinque punti. Della stessa stregua il biennio successivo, con l’ultimo guizzo in zona punti targato da Pedro Lamy ad Adelaide nel 1995.

A cavallo dei millenni e il lento declino

Minardi è sempre più sfiancato dalle ingenti spese chieste ai team per correre. Ormai la Formula 1 non è più quella romantica di una volta, ora dipende tutto dal denaro. Così è costretto a cedere l’85% delle sue quote a Flavio Briatore e Gabriele Rumi (ex patron della Fondmental). La ritrovata liquidità, assieme ai motori Hart, dovrebbe far ritrovare la competitività di un tempo al team italiano. Ma ciò non accade: Briatore vorrebbe cedere la sua quota alla BAT (cordata inglese che poi avrebbe fondato la BAR). Fortunatamente si oppone Rumi, che riacquista la quota del geometra piemontese per mantenere il glorioso marchio ancora in pista.

Negli autodromi la Minardi arranca dignitosamente nelle retrovie cercando di cogliere qualche occasione, come il punto conquistato da Marc Genè nel pazzo GP d’Europa del ’99. Il nuovo millennio non inizia nel migliore dei modi in quel di Faenza. C'è il rischio serio di chiudere i battenti della fabbrica e di tutta l’avventura. Fortunatamente arrivano gli sponsor portati da Gaston Mazzacane, ma sono solo dei palliativi. Mentre tutto sembra perduto arriva Paul Stoddart, un magnate australiano proprietario della compagnia aerea “European Aviation”. È proprio nel 2001 che debutta nel Circus iridato Fernando Alonso, facendo vedere di che pasta è fatto. Mentre nel 2002 tocca a Mark Webber che, al suo debutto, conquista il quinto posto nel GP casalingo mandando la folla in visibilio. Al punto che gli organizzatori sono costretti a finire la cerimonia del podio in tutta fretta pur di far salire l’australiano assieme a Stoddart sulla pedana dei vincitori.

Il guizzo di Magny Cours

La situazione economica diventa sempre più difficile e dura, la concorrenza è agguerrita e spregiudicata sia a livello monetario che tecnico. La Minardi è costretta a barcamenarsi con una vettura che viene aggiornata di anno in anno con il bravissimo Gabriele Tredozi che è costretto a fare dei miracoli con il misero budget a disposizione. L’ultimo guizzo, quasi come un canto del cigno, è del 2003, quando le qualifiche sono divise in due sessioni: il venerdì a serbatoi scarichi e poi il sabato con la benzina per percorrere il primo stint di gara. Ed è proprio nella prima sessione ufficiale di Magny Cours che succede l’inaspettato: un acquazzone colpisce il tracciato francese per gran parte della qualifica. Le ultime monoposto ad uscire, per via della classifica di campionato rovesciata, sono le due Minardi. L’asfalto si sta asciugando e Jos Verstappen decide di montare le gomme da asciutto. L’olandese vola letteralmente fino a siglare la pole provvisoria. Secondo posto per il compianto Justin Wilson, poi squalificato perché trovato sottopeso. Ma la scuderia di Faenza è nella storia!

La fine di una favola e il ricordo che resta

La favole della cenerentola Minardi arriva al capolinea a fine 2005, quando Stoddart e Minardi cedono tutte le quote alla Dietrich Mateschitz e nasce la Toro Rosso. Questa, in qualche modo, seguirà la spirito della gloriosa scuderia portando in Formula 1 le giovani promesse. Lo fa con Sebastian Vettel, autore dell’unico successo del team in una Monza colpita dal diluvio del 2008, e lo fa con il nuovo che avanza Max Verstappen, proprio il figlio di Jos, per la serie corsi e ricorsi storici.

Ma ciò che resta davvero della Minardi è il ricordo di un mondo che non c’è più: una Formula 1 goliardica, fatta di passioni, di uomini e non di vil denaro e speculazioni. Questo spirito rivive, come una fenice, ogni anno nel bagno di folla che è l'Historic Minardi Day con i tifosi che possono abbracciare calorosamente l’eterno sognatore Giancarlo Minardi, un moderno Don Chisciotte che ha sfidato i mulini a vento dei grandi team.

Michele Montesano